mercoledì 10 febbraio 2010

Foibe, una pagina dell'identità nazionale


Gli occhi dell’umanità dolente sono uguali, sempre, che si passi da un camino o che si finisca legati l’uno all’altro in una foiba. Tra gli ebrei gasati da Adolf Hitler e gli italiani macellati da Josip Broz Tito, differenze non ce ne sono: i morti si assomigliano tutti. Tuttavia sono i vivi a renderli diversi e così, mentre per l’Olocausto non vi sono e non vi furono mai dubbi, per le Foibe la ferita è restata aperta per anni. Il muro comunista eretto a Berlino non è stato solo il simbolo di una separazione geografica, è stato ancor più una barriera eretta dal blocco sovietico contro la circolazione delle notizie. La vulgata comunista, di marca staliniana, per anni ha negato i massacri compiuti dal macellaio jugoslavo e dai suoi partigiani nei confronti delle popolazioni giuiano-dalmate colpevoli di una sola cosa: del proprio sangue italiano. Per anni quella tragedia è stata negata, sino a quando il crollo del muro è coinciso anche col crollo delle menzogne. Sino ad allora era stata solo la Destra, solo i camerati del Movimento Sociale Italiano, a ricordare quel sangue versato alla belva titina poi, dopo anni di battaglie, il 30 marzo 2004, dopo circa sessant’anni quella ferita ha cominciato a rimarginarsi. Quel giorno, con una legge dello Stato, venne istituito il , quello appunto destinato a non disperdere la memoria di quella feroce stagione che comincia dopo l’8 settembre 1943.
Fu proprio all’indomani dell’infamia badogliana che cominciarono i massacri. I primi a bagnare di sangue la terra di Istria e Dalmazia furono i fascisti e gli italiani non comunisti, travolti da una mattanza spacciata per anni, dalla vulgata comune, come una resa dei conti e quasi derubricata a fatto di normale amministrazione. Invece fu, per gli italiani di quelle terre, il loro olocausto. Gli italiani vengono prima affamati, torturati, spezzati di botte e poi, legati insieme col filo di ferro, buttati ancora vivi nelle foibe. , così vengono definiti dalla canaglia umana che comincia a macchiarsi le mane del più grande assassinio di massa subito dal popolo italiano. Poi, a quell’inizio, fa seguito il completamento dell’opera. La violenza aumenta nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupa Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito si scatenano contro gli italiani. Ad essere infoibati non sono soltanto i fascisti, cadono con loro nelle fosse anche cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. Nessuno viene risparmiato: basta un cognome, una parentela, un legame qualsiasi a trasformare l’essere italiani in una inappellabile sentenza di condanna a morte. È una carneficina dettata dall’odio politico-ideologico e dall’ordine di pulizia etnica diramato da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti. Il dramma va avanti per anni, sino alla primavera del 1947, sino a quando viene stabilito in via definitiva il confine fra l’Italia e la Jugoslavia.
Ma per un dramma che finisce, un altro ne comincia. Nel ’47, a seguito della ratifica del trattato di pace che mette fine alla seconda guerra mondiale, l’Italia è costretta a cedere alla Jugoslavia l’Istria alla Dalmazia è così, ai morti, si aggiungono altri 350mila esuli costretti a lasciare quella che a tutti gli effetti era la propria Patria: l’Italia. Oggi, il , è dedicato anche a loro, una memoria che non va separata dalla condanna per il lungo oblio nel quale questa storia drammatica è stata relegata. Da un lato il Pci, per ragioni ideologiche legate al blocco comunista, dall’altro la Democrazia Cristiana, per pavidità e ignavia, hanno consentito che il dramma di un’intera popolazione fosse sepolto nella foiba della Storia. Da quella crepa nella terra, però, i morti sono risorti perché risorta è la loro memoria, i profughi hanno finito di vagare, perché la Storia non è sempre vero che la scrivono i vincitori. A volte, la pagina definitiva, la scrivono mani celesti contro le quali nulla può la scolorina dei vincitori, termine che in questo caso è sinonimo pieno di criminali. Dalla foiba della storia sono risaliti i fascisti, i cattolici, i liberaldemocratici, i socialisti, i preti, i vecchi e i bambini, gli uomini e le donne di quell’Italia che le zanne di Tito cercarono di sbranare. Quell’Italia oggi è in piedi, un popolo al quale noi dobbiamo inchinarci, perché in queste circostanze, erroneamente da quel che crediamo, non sono i vivi che vanno dai morti ma i morti che chiamano i vivi per chiederne il conto. Il conto di quello che abbiamo fatto perché non accada mai più una tragedia immane come quella toccata loro in sorte, il conto di quello che facciamo giorno dopo giorno per trasformare il ricordo in memoria, e cioè consentire al passato di rifarsi presente e di trasformarsi in identità. Quella di una Nazione e di un popolo.
Pasquale Di Bello
Giornalista Nuovo Molise

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