Il “torroncino”.
Quest’anno, a causa del fatto che è venuto a mancare mio padre, mia madre non ha preparato i dolci di rito per le festività natalizie. A parte gli insostituibili bocconotti, che come li fa lei non li fa nessuno, mi sono mancati i “torroncini”. Quei torroncini tipici “vastaroli” che io cito anche nella mia “celebre” canzone “Lu Bobbone”. Sono passato da Martone, la famosa caffetteria torrefazione di piazza Diomede, che ancora li produce, e ne ho comprati cinque. Ho pensato: “uno lo mangio subito, gli altri li porto a casa”. Poi invece ho deciso di passare un’oretta come da bambino, durante le feste di Natale. Sono andato presso la mia abitazione di allora, in corso Garibaldi, e ho immaginato mia nonna che, probabilmente per togliermi di torno, mi diceva: “vai a portare gli auguri a Zio Filippo (suo Fratello) che ti da le caramelle”.
Filippo Molino, eroe della prima guerra mondiale, mi faceva vedere tutte le sue medaglie e mi raccontava di quando col mulo riuscì ad attraversare le linee nemiche per portare vettovagliamenti ai suoi commilitoni chiusi in trincea nelle montagne del Trentino. Devo riconoscere che, se fosse morto durante quella azione, gli avrebbero intitolato una strada oppure posto una lapide o magari realizzato una statua o quantomeno un busto marmoreo a sua immagine. Invece si salvò e morì in tarda età. Così che ha dovuto accontentarsi di presenziare a tutte le cerimonie inerenti la grande guerra e a raccontare a me le sue storie. Cosa, la seconda, che lo faceva felice, lo capivo dal suo malinconico sorriso.
Ora la sua casa è totalmente abbandonata. Anzi addirittura aperta e chiunque può entrarvi dentro. Io per pudore non l’ho fatto. L’erba parietaria (la jerva murella) l’avvolge quasi completamente e, invece della lapide alla memoria, hanno realizzato sul suo prospetto una centralina per la distribuzione dell’energia elettrica.
Quando andavo da lui, sua moglie, Zia Angiolina, mi offriva dolci di tutti i tipi e mi dava sempre i “torroncini” da riportare a casa. Io, a quella epoca, appena uscito dalla loro casa mi sedevo sul gradino dell’uscio e ne mangiavo uno. Così ho fatto anche quest’anno. Ho proseguito poi il cammino e, scorrendo via San Francesco d’Assisi, mi sono fermato davanti alla porta della Cappella dedicata a San Teodoro. Come da bambino ho guardato all’interno attraverso il buco della serratura. Una delusione “aspettata”. Non ho visto più la pala d’altare ne le statuine che si intravvedevano allora. Per consolarmi ho deciso di mangiare il terzo torroncino.
Masticando questo, ricordavo il negozio di “Gino il casotto”, le statuine dei presepi esposte sulle vetrine di “Cesarino” e di “Raspa”, “le cannelutte” alla chiesa del Carmine, i barbieri che, ai bambini accompagnati dai nonni, tagliavano i capelli ponendoli seduti sul “cavalluccio”, gli “scarpari”, i falegnami, i fornai, tutte le botteghe e ogni elemento che dava “vita” alla “città”, fino a “Caddane lu cengiare” o a “Vola Mario”. Elementi di quella “città” che ora chiamano centro storico o peggio borgo antico. Mi ha preso un senso di sconforto tale che necessariamente ho dovuto scartare il quarto torroncino.
Mi chiederete e il quinto? Il quinto ce l’ho qui davanti. Lo sto osservando e più lo osservo più mi rendo conto che questo dolce mi rappresenta.
E’ duro ma dolce al punto giusto, se lo si sa assaporare soddisfa il palato e la gola con i suoi ingredienti semplici ma “sofisticatamente” ricercati e ben amalgamati. Ogni torroncino è diverso dall’altro ed ogni persona che li prepara aggiunge ad essi un suo personale “segreto”.
Un difetto: “Se si attacca ai denti, specie se penetra tra un dente e l’altro, sono dolori. E’ fastidiosissimo da eliminare”. Tuttavia se si fa attenzione ciò non avviene e se avviene basta pensare al piacere che ha procurato.
Caro “quinto” torroncino… sono pronto.
Francescopaolo D'Adamo
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